Francesco Lauretta

Apologhi

Tutto si è svolto proprio stamattina prima di uscire dalla casa madre, mentre andavo a prendere le mie splendide infradito nere e gialle, mi sono fermato nella sua tana. L’ho visto: un animale quasi accucciato in una sedia a sdraio, bianco come morto, mio padre.

“Cosa ricordi del funerale di tuo padre?”

“Niente”

Lo vedo, mi guarda dal suo unico occhio vivo, l’altro è morto, nero, un buco buttato al di là di quanto vede, già sepolto e senza vita, e mi guarda anche con l’altro, quello morto intendo –mi rendo conto- come a condurmi all’inferno, anche me

“Niente”, ripeto, “niente? Cosa ricordi del funerale di mio nonno?”

Lui mi interrompe: “Del funerale di mio Padre, niente… Niente. Perché queste parole?”

Credo mi prenda in giro ma lo vedo serio, bianco straordinariamente bianco

“Le parole ‘funerale di tuo padre’ che parole credi che siano?, è solo curiosità la mia, null’altro, volevo ricordare, lo ricordo”

“Niente”, ripete.

Poi con fatica come se si rianimasse dice: “Niente, non ricordo niente. Non so quando è morto, il giorno, il mese, l’anno, niente, assolutamente niente ricordo, non so neanche se è morto mio padre” dice, “ ma credo di sì, non lo vedo e non lo ricordo più, non so niente e questo è tutto”

Lo guardo. Non so se è fortunato a non ricordare nulla della morte di suo padre, il suo funerale. Stupidamente mi domando se anche io non ricorderò niente della sua morte, di mio padre, e quel “niente” sparato dalla bocca di mio padre lo trovo pieno, perfetto, così come vorrei essere io-morto per quell’evento spaventoso di morte e successione: il resto. Come un disturbo, per la prima volta nella mia vita, intuisco la genialità di mio padre, un padre mostro, quasi perfetto.