FRANCESCO LAURETTA – LA PITTURA FINISCE A ISPICA
Quella di Francesco Lauretta è un’epopea concettuale senza fine, una foga operaia ad intermittenze che paga il prezzo di un irrisolto contrasto fra una poderosa e cannibalistica verve orientata sulla parola e sul suono e il gesto pittorico arrivato tardi, sfinito, con la lingua a penzoloni.
Strenuo, minuzioso, valoroso nell’affrontare la posa ormai dominante dell’arte contemporanea Lauretta si dibatte nella sua gabbia vuota, sepolcro aperto di legno, pollo arrosto sulla rampa di lancio della trascendenza che – passando per lo svuotamento del sacro e l’affetto per la morta quotidianità – tende ad altro approdo, ad uno strappo risolvibile nell’abbandono di una certa pittura, verso una visione spurgata dal troppo pieno umano.
La sua appartenenza alla stirpe autonoma è testimoniata dall’estrema consapevolezza della fine del gioco, da una forma idiotica ancora tutta da esplorare e da una virulenza serena che, all’interno di un sistema corrotto e marcio, rischia il fraintendimento o il boicottaggio. L’artista sta immolandosi. Non va bene, bisognerà preconizzare il non preconizzabile.
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Nella costruzione del nome hanno da sempre contribuito i carpentieri del sorriso.
Lasciandoti in balia della parola, muta lo stato, non il profondo battente.
Il valore testimoniale di un’opera d’arte è il surplace dopo una corsetta.
A picco un filo stretto e lungo
girando s’ispessisce a ferro di cavallo.
La carne soda agisce fuori dai filamenti reticolari del nuovo mondo.
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Angelo Rendo, 8 agosto 2010, diritti riservati.