Francesco Lauretta

Sugnu nu giru tunnu (Sono come un vortice)

“…Mi farò intervistare, io, la Signurina e in lingua ma non troppo perché anche gli altri devono capire, insomma lo sapete benissimo, le esclamazioni vanno in dialetto, i titoli in inglese, i concetti filosofici in tedesco, le parole pruriginose in…”

Francesco Lauretta, Privato, testo in catalogo, Galleria Colombo, Milano 2007

 

 

I. Sick day sun upon us

 

Ivana Mulatero Quando hai iniziato a sentire interesse per la pittura?

Francesco Lauretta “Credo che la facenna è principiata quando mia madre mi massacrò di botte perché ero andato a Ragusa con un amico che, cuntrariamente aveva avvisato sua madre. Eravamo in seconda media e avevamo progettato di realizzare il nostro Paradiso Terrestre. Letteralmente avevo preparato i disigni dei santi, degli angeli e di tutto il cielo così come poteva immaginarselo un carusu di dudicianni o tridicianni. L’arte o quest’interesse nacque dal desiderio di dare forma a questa menzogna. Realizzai i disegni in scala e progettammo di fare il nostro PT alto 280 e largo 175 centimetri. Prugittammu tuttu e bonu. Chiaramente a Ispica, sotto il parallelo di Tunisi e Algeri negli anni 1976-77 non vendevano tela di quella dimensione e fummo custritti ad andare a circa trenta chilometri di distanza, nel centro di Ragusa. Fu facile trovare quanto stavamo cercando, i nostri risparmi ci permettevano di dare inizio al nostro desiderio di Paradiso Terrestre, io lavuravu du varvieri e suonavo già nella banda cittadina, quella dei viecci. Potevamo fare il nostro PT. Partimmo e tornammo. Nel mezzo matrimia preoccupata del fatto che ritardassi per l’ora di pranzo, chiese alla mamma del mio amico se aveva nostre notizie eccetera, e ne aveva, eccome! Quanno arrivai a casa, non misi piede dentro che una belva feroce mi si avventò incontro. I disigni rimasero dal mio amico. Lui dipingeva cume diu comanna e continuò i suoi studi a Siracusa, Istituto d’Arte. Io diventai un tiralinee, andai a Modica, in una scuola per giometri, “Archimede”. Sono giometra ma probabilmente tra varie difficoltà scoprii che desideravo fare qualcosa ma non sapevo che questo qualcosa si potesse chiamare arte”.

Ispica, città dove sei nato e intorno alla quale ruota il tuo interesse di artista…

“E’ come Aglaura vista attraverso il Marco Polo delle Città Invisibili di Calvino, una di quelle cittadine dove i suoi abitanti si annidunu sulle proprie mura, una città che crede di crescere sul proprio nome quando, diversamente, sprufunna nella sua terra. E’ metafora sciasciana ma ribaltata perché il mondo cantato è quello più ampio, in crescita esponenziale, quello dell’esubero nella “società liquido-moderna”. Dalle distanze in cui mi trovo - Firenze, Milano o Torino - posso vedere, annotare, dimostrare una complessità che a sua volta è difficile da spiegare e che richiede uno sforzo per intercedere dentro questo territorio visionario e di racconto contemporaneo con un linguaggio anacronistico come la pittura, e la mia pittura pare discostarsi dall’attualità. Ma la pittura, a volte, è irresistibile”.

 

 

II. Morning preyer

 

E di cosa parliamo quando parliamo di pittura?

“Da quacche patte ho spiegato che quando pinsu alla pittura vidu il triangolo di Abraham Edbus, padre di Dylan, vero protagonista dello straordinario romanzo di Jonathan Lethem “La fortezza della solitudine”. L’anno scorso ho dipinto un trittico, una crocifissione, e l’ho intitolata “Epitaffio”. E nel mio tormento la pittura può essere anche questo, un epitaffio che riporta le lodi, spesso esagerate del defunto. Menzognero come un epitaffio si dice, no? Il trittico è forse il quadro più doloroso che abbia mai fatto. Pinsu ai morti. Agli amici morti. Pinsu che questo trittico non ha niente da invidiare a una Crocifissione di Bacon. Ho alzato i quadri a parete. Auti sopra i neon, come fussero stendardi, comu si faciva ‘na vota. Dentro c'è una promessa spiegata, sono quadri della resurrezione”.

Gli artisti italiani contemporanei hanno interesse ad utilizzare un dispositivo religioso entro il quale inserire messaggi di altro tipo? Penso all’“Ave Maria” di Cattelan ad esempio. Tu hai realizzato il trittico con il Cristo risorto vincitore del premio Fabbri, e mi chiedo se ci sia, in realtà, un’intenzione di parlare anche d’altro.

“Certu ca c’è sta intenziuni. Quando prima dicevo che Cristo è l’epitaffio, la pittura è quella, nel momento in cui parlo di resurrezione mi riferisco sempre ad un linguaggio ben preciso. Mi dò delle chances rispetto alla mia condizione individuale come uomo e come artista che opera con un linguaggio. Cristo è risorto in riferimento all’epitaffio…Potenzialmente la pittura di Nicola De Maria è religiosa, carica di speranza. Lui parla di paradiso, non di inferno, non può fare altrimenti. Io invece ho un approccio con la pittura sempre teso, in conflitto costante, sono nevrotico da questo punto di vista”.

 

 

III. The diary of one who disappeared

 

Antonio Mascia Se le braccia in forma di saluto nazista di “Ave Maria” o il papa colpito da meteorite è un inferno figurato, allora anche le tue processioni religiose dipinte sono il quotidiano come inferno. Non è il sogno, l’astrazione o la distrazione. Com’è il “tuo” l’inferno?

“Gli ultimi lavori sono riconoscibile dai toni: la cassata o il pupazzo di marzapane che ho dipinto sono in un contesto a-temporale e a-storico, come quello de “La strada” dello scrittore Mc Carthy in cui narra di luoghi senza tempo e riflette una condizione ormai disperata da inferno. Questi paesaggi hanno delle ambientazioni che sembrano quasi dei fondali di teatro e osservandoli pinsai: ma u coluri dell’inferno è un po’ quel coluri lì, il bianco mischiato con un po’ di giallo brillante chiaro.”

Anna D’Agostino E’ anche il colore della noia?

“Nan ci n’è questa dimensione nei quadri che brulicano di stimoli e incuriosiscono. Invitano a trasiri per capire cosa sta succedendo. Ci sono fantasmi grotteschi a modo loro, perché sono dei dolci che vanno a passiari. Il mio modo di creare sembra il contraltare di un tiatru. Sono opere spiazzanti, riconoscibili dal colore ma la cassata o il pupazzo di marzapane sono in un contesto dove non c’è più tempo, non c’è più una storia. Può essere una cosa passata o futura e il tempo ha un carattere fluttuante, sospeso, simile al concetto del “stehendes Strömen” lanciato da Husserl”.

A proposito di spazio bianco e di pittori, sappiamo che stai lavorando a un progetto, una sorta di cenacolo di artisti e teorici che riflettono non tanto la condizione della pittura oggi, ma di esplorare questo linguaggio in modo totalmente diverso. Hai dato anche un nome a questa possibile tendenza, ”gli imbianchini”.

“Ho elaborato la teoria facendo una specie di manifesto, ed ho già coinvolto tri o quattru artisti disponibili. Mi interessa annullare le identità per lavorare intorno ad un’idea. Il pittore contemporaneo è un po’ un imbianchino, uno che quando “vuole” dà il bianco e ti cambia. Mi piaci l’idea di coinvolgere delle persone per lavorare intorno ad un progetto comune e per cominciare ho scritto un pezzo sul fatto che la pittura dovrebbe tornare in paese, si dovrebbe esporre nei paesi.”

In che senso? Paese come villaggio globale?

“In paese si mantengono le tradizioni, la memoria è più precisa. C’è n’à stravaganza e il senso di grottesco. Ogni paese nasconde qualcosa che non è permesso a tutti di conoscere. A meno che tu non ti introduci dentro quel luogo. “’A Signurina”, “Giovanninu”: che belle parole! E’ un mondo fantastico, un linguaggio vivo. “

Anna D’Agostino Potresti definirti un pittore di paese?

“A me piaceva tanto l’idea dei pittori come fossero degli astronauti. L’artista è un po’ astronauta: vive il vuoto assoluto, non ha la strada ma va, è curioso ancora di fondi. Però non mi dispiace pi neenti l’idea di essere un pittore di paese.”

 

 

IV. How to survive being hit lighthing

 

C’è stato chi ha apprezzato le tue nature morte da locanda sostenendo che la pittura vivrà in teoria.

“Ai nostri ‘iorna, ‘a pittura è diventata quanto non è mai stata prima: ready made. Renato Guttuso, “mio compagno”, è stato il pittore italiano dello straordinario secolo che ci siamo lasciati alle spalle. Renato in fondo è stato come Beuys in Germania. Loro si sono incontrati e si sono lasciati. La loro scomparsa è stata benedetta. Con B. siamo diventati tutti artisti. Renato ha portato la pittura nell’ orinatoio, l’ha buttata fuori nelle strade, nei ristoranti, nei pub, nella suburra dell’arte. La pittura è giovane come nei secoli non ‘gnera mai stata. Molti pittori ancora non lo sanno e forse non lo sapranno mai. La pittura è un linguaggio altamente e sofisticatamente concettuale e probabilmente il quadro, il mio quadro, è quanto di più alto e di concettuale esiste al mondo in questo momento.

Per te il problema della personalità dell’artista è inseparabile dal ready-made.

“Il ready-made è un problema dell’io creativo, un atteggiamento che riduce la produzione dell’arte ad una irrefrenabile Kunstwollen. Con le varie esperienze che si sono succedute, dalla fotografia fino alla estetizzazione del mondo, parafrasando Benjamin, l’opera ha perso l’ elemento dell’hic et nunc: la sua esistenza unica e irripetibile nel luogo in cui si trova. Duchamp contribuisce a percorrere i tempi fino a che la grande avventura moderna della sparizione dell’arte è terminata. “

C’è stata come prima tappa della tua pittura le “foto-coppie” del ’92-’93. Una la esponemmo al Sacro Monte di Varallo.

“Fu nel 1992 quando realizzai su tavole alcuni quadri (tre in tutto). Erano la riproduzione fedele in dimensioni di opere note di grandi artisti - Duchamp, Magritte, Mantegna - dipinte con colori ad acqua utilizzando solo il bianco e il nero e riproducevo la trama tipica delle fotocopie di grande formato. Questi quadri avevano la particolarità che dopo un lavoro lungo di copia, potevano cancellarsi facilmente con un semplice colpo di spugna inumidita con acqua. Uno di questi era la riproduzione fedele dello Scolabottiglie di Marcello. Nel quadro “ il Cristo in scurto “ di Mantegna avevo cancellato le stimmate, mentre nella “ Grande guerra “ di Magritte - il famoso omino con bombetta - avevo dato volto all’uomo cancellando la mela o meglio dipingendola dietro la nuca. A tia parirà stranu, ma quella volta avevo scritto, nelle caldissime notti ispicesi, alcune note riflettendo sulla pittura come ready made con lo squallido risultato che quando dipinsi lo scolabottiglie e lo regalai a mia zia Ninetta che da sempre voleva un mio lavoro, mi sentii dire: “e cchì minchia è sta cosa?”

La foto-coppia assumendo tutti i modelli è di tutti un’anti-rappresentazione.

“E’ critica e anticritica, di crescita e di crisi di crescita. Nella foto-coppia ogni immagine sottrae la realtà del mondo. In ogni immagine qualcosa scumpari. Del colore rimane u profumu, reliquia. La foto-coppia, percorsa dal profumo, emana aliti irrespirabili e commoventi come testimonianza di qualcosa cui domina l’incertezza presso il destino d’ogni cosa, gesto, evento, bbulla di sapuni anch’esso, perfetta e fragile sfera ove si specchia la transitorietà. “

 

 

V. Sentimental journey

 

C’è un parallelo tra la pittura come reliquia e la “sicilitudine” espressa da sagre e feste religiose, da eccentrici come “A Signurina” e “Giovanninu”?

“Cos’era la sicilitudine di Sciascia, la Sicilia come metafora se non questo desiderio, quello d’essere altri o altrove in isola, e fedeli a se stessi? Se fate caso, i quadri di Renato come “La discussione”, lo stesso “ I funerali di Togliatti”, gli autoritratti e persino le sue nature morte non hanno qualcosa dell’iconografia mafiosa? La mia Sicilia, diversamente, è quella babba, degli stupidi come ci indicano con disprezzo i palermitani o i catanesi. La Sicilia è loro. Noialtri siciliani, i cosiddetti babbi abitiamo la metafora per riflesso, siamo dei timidi e timidamente adottiamo la metafora nelle piccole cose, in famiglia. Essere sicilianu pi mia è na gran minchiata che pesa e di cui non posso farne a meno.”

Il tuo lavoro pittorico e filmico sulla Sicilia è di carattere antropologico e investe i meccanismi cognitivi e culturali che regolano i processi di produzione-interpretazione di un evento religioso, di un fatto comunitario, di un episodio o di una figura apparentemente marginale perché ha a che fare con quella che è forse l'identità e l’anima più profonda del territorio. Quando è scattato questo interesse specifico?

“In una notte del 2000 vidi su Fuori orario - RAI 3 - tutti i documentari siciliani di Vittorio De Seta. E molte delle situazioni che vedevo sullo schermo, io le avevo vissute. “

Anna D’Agostino Qualche ricordo in particolare?

“Un giorno, nella via dove abitavo (i miei ricordi sono sempre in bianco e nero, però molto luminosi) da lontano spuntarono due personaggi altissimi circondati da molti bambini. Anch'io ero bimbo e mi ficiru tanta ‘mpressione. Nel documentario di De Seta ho scoperto che erano due sui trampoli che si erano fatti tutta la Sicilia a piedi per un anno. Mi dissi “C’ero anch' io!”.

Quanto ha influito il “De Seta in bianco e nero” sulla tua “sicilitudine?”

“Le scoperte che feci a partire da quei documentari mi portarono verso una decisione (pirandelliana) di “divintari sicilianu”; tornai nella mia terra e ripercorsi i luoghi attraversati da Vittorio: Aidone, Riesi, San Cataldo e Sommatino, nu viaggiu lungu di quasi quarant’anni in un solo misi . Ecco la mia differenza. Di quel viaggio “breve” registrai la sottile tensione di vita così contraddittoria rispetto al belvedere immaginario della nostra isola. Compresi la metafora di Sciascia, cercai disperatamente cose di De Seta e trovai “Il Mondo Perduto”, rividi “lo zio di Brooklyn” e “Totò che visse due volte” di Ciprì e Maresco, e lessi libri sull’argomento. Nel frattempo iniziavo a registrare, filmare, scrivere, dipingere e mostrare cose “siciliani” soprattutto dopo che alcuni della nobiltà siciliana mi contattarono per fare l’identikit della Madonna (altezza m1.55 e di Gesù Cristo m.1.82). Ho realizzato un video “Sicilia tout court” che registrava il profondo sonno di un cane nero che pareva non dar segni di vita nonostante i curiosi facessero di tutto per provocarne il risveglio buttandogli persino dei cornetti alla crema, inutilmente. In quel cane mi parve di vedere l’isola, ma ancora era un video imperfetto. “

 

 

VI. Infinite jest

 

Dove sta la perfezione?

“La perfezzioni è in una canzonetta cantata da Daniel Johnston e arrangiata da Mark Linkous. La perfezzioni non ci tiene alle parole e forse ha ragione Nicola, la perfezzioni non ha parole, non ci sono parole fossi è nenti e forse dovrei studiare La Stella della Redenzione, forse sta lì il segreto, ancora una volta nella resurrezione ma nuautri non l’avemu mai conusciuta nessuna resurrezione e forse la parola resurrezione è la sola e perfetta. Per me uno dei colori - ma dicendo questo nego l'evidenza, pecisamenti la perfezzioni - perfetto è il giallo di cadmio medio - che poi è un arancione - non è il più bello a vedersi ma è perfetto, non c'è niente da dire, infatti. Bisogna essere assolutamente calmi per la perfezione e, poi forse, non c’è bisognu di ammazzarisi tantu .”

La perfezione sta nel “forse”? E quanto è perfetto il virtuoso?

“Le mie visioni possono apparire irritanti perché ostentano un virtuosismo fine a se stesso. Ma qui si ingannano tutti: io non sugnu un virtuoso, sugnu pazienti. Gli incerti sono i virtuosi. Carrà è un virtuoso, anche Casorati e Savinio mentre De Chirico è uno che si affanna a dipingere, uno che soffre le pene dell’inferno. Gli incerti sono virtuosi picchi rennunu le loro opere impossibili. Dei contemporanei, Peyton è uno di questi mentre Currin è troppo bravu per essere un virtuoso. Iu sugnu l’affanno e sono ambizioso perché spero di diventare un grande pittore, un Francisco. “

Cosa rappresenta per te realizzare una personale?

“Ogni mostra è chiudiri un lamento e apriri un percorso che spero possa condurmi un po’ più in là, dove possa davvero rivedere le cose nella loro diffusa trasparenza. Pricedu, mai calmo, sereno certo, però con tenacia pricedu la marcia, questa dannatissima avventura che, come diceva mia nonna, ha reso e rende la mia vita una festa, un fistino pagato a caro prezzo ma sant’Iddio che meraviglia, quale meraviglia dopo - o maravigghia/maravigghiusu - se si rimane in vita.”

 

Ivana Mulatero

 

conversazione da me organizzata avevano partecipato la stessa D’Agostino, Antonio Mascia ai quali va il mio ringraziamento per la loro preziosa amicizia e collaborazione così come sono grata per gli “arrangiamenti” in siciliano del testo a cura di Dino Pistorio e Francesca Portale.

Intervista pubblicata su Juliet Art

Il presente testo è nato a partire da uno stralcio di conversazione con l’artista redatto da Anna D’Agostino. Alla Magazine, n.141, February-March, Trieste 2009