Francesco Lauretta

Una casa sigillata  e una pittura filmica

La casa che Francesco Lauretta rincorre con l’installazione “Privato” è una realtà simbolica e un tratto biografico dipinto a tutto campo. Questo rincorrere qualcosa è proprio della riflessione privata, ma anche dell’intuizione dettata da ciò che “si vede”. Vedere non è quasi mai una semplice azione ottica, dipende da spinte interne, a volte sopite, a volte lì lì per diventare coscienti. L’arte trae da questa estensione della vista le sintesi che mettono in figura l’inscindibile movimento tra vedere, ricordare e immaginare.

Come scrive Francesco nel “romanzo breve”, con il quale accompagna la mostra, questa casa l’ha vista sette anni fa durante un temporale. Gli è apparsa improvvisamente attraverso lo squarcio di un lampo “illuminata in tutto il suo grigio, l’argento, e il giallo”. E da quel momento inizia una sottile ossessione che cadenza le sue visite a Ispica, il luogo dove è nato e cresciuto lui e, in tempi differiti, questa casa. La spia, la rincorre nella memoria, prende appunti.

Ritrova i ricordi di infanzia, il giardino delle meraviglie e della paura dove viveva A Signurina (Anna Franzò). Una donna altissima, eccentrica, viveva da sola con molti animali, cani, gatti che la accompagnavano nelle sue passeggiate. Non era sposata. Un’altra misura anormale per questo paese siciliano, che ancora negli anni ’60-’70 rimaneva allibito di fronte a una donna di altezza eccezionale che aveva l’ardire di non sposarsi, di non coltivare un focolare domestico lindo e pinto, e quindi affidabile per un futuro marito, ma che sembrava preferire agli uomini gli animali e la vegetazione spontanea del giardino che attorniava l’elegante villa liberty. Una cosa che non rispondeva ai canoni del decoro, ma a una ribellione incomprensibile, incasellata nella stranezza del destino di una donna sola.

Tutto questo avviene nella realtà, e la casa che gli è apparsa nel temporale glielo fa tornare in mente. Come un tipico scherzo della memoria questa casa si trova ai bordi della sua infanzia e ai bordi del luogo dove è vissuta A Signurina. Dopo la sua morte di lei si perdono le tracce, il giardino scompare definitivamente dalla percezione, non essendo più abitato, e ai suoi confini viene invece costruita questa casa, che si modifica, pur restando sempre allo stato di costruzione. Un non finito che mette ancor più in evidenza la sua povertà estetica. Ad ogni ritorno a Ispica, Francesco vede elementi diversi, ma la casa non procede. Una volta davanti all’ingresso appaiono due panchine di cemento, poi una in legno, poi nessuna, come se ci fosse un continuo ripensamento di una mano invisibile che progetta spazi e funzioni che non hanno corso.

Francesco fotografa. Disegna, scrive. Decide di rintracciare la storia della Signurina. Entra in contatto con gli eredi, scopre pochissimo. Una foto di lei del ’47 che sorride, mentre sembra sul punto di attraversare un ruscello, tre poesie in cui si intuisce un amore forse condiviso, forse solo vagheggiato. E poi tutto questo lavorìo senza intenzioni precise si tramuta in un progetto pittorico, dove il quadro non basta più a se stesso, ha bisogno di dilatarsi nello spazio, di ricreare la suggestione di questa casa sempre in parziale movimento, ma che non lascia trapelare nessun abitante, nessuna luce interna: tutto si risolve sulla facciata, sull’incrocio di vie dove si affaccia, sull’alternanza delle stagioni che risveglia o impoverisce l’alberello davanti al portone di ingresso.

Così la legge Francesco “Una mappa dell’esclusione, quasi una carta geografica negata, sospesa, una zona d’ombra priva di diritti e aspettative, una casa come metafora spaziale dei problemi che appaiono alla periferia della società, di cose che sanno evocare non delle realtà ma dei fantasmi, un ordine estetico e la costruzione mentale d’uno spazio nervoso”. Bella la definizione di spazio nervoso. Diventa il titolo di uno dei quadri: “Nel paesaggio nervoso”, dove domina un giallo luminosissimo, appunto nervoso, che dilata i confini e la figura, come se il corpo stesso della casa si fosse smaterializzato sotto la forza autonoma del colore.

 

 

 

 

 

Ma come restituire il rapporto tra la visione che ha avuto durante il temporale e tutti i pensieri che ha pazientemente costruito negli anni? Come trarne una sintesi che prenda la forma di un racconto per spazi, immagini, colori, foto, video? Come farci entrare in questa casa sigillata dalla sua incompletezza?

Alla fine emerge l’idea di costruire, dentro la galleria, una serie di spazi comunicanti che alludono alle stanze ipotetiche di cui è composta questa casa. Superata la porta a vetri della galleria, entriamo in piccolo vestibolo dove l’immagine della casa in piena luce, Vieni, ci invita a entrare. Si attraversa una stanza tutta gialla, vuota, si scendono le scale, un nuovo stacco non illuminato e si passa nella prima stanza, dove, in due dipinti ( Al mondo) è simbolizzata la scoperta iniziatica che fanno i bambini quando giocano al mondo. Le pareti sono dipinte di un ocra acido che fa da controcanto agli sprazzi di giallo lucido, come di agrume, che illuminano le figure dei bambini, sono ritratti in movimento, le figure si sdoppiano nel segno e nella luce, lo sfondo vira tra il verde e il blu, si ha la percezione di un ambiente un po’ vuoto, un po’ indistinto. Da qui si esce in un ampio vano, bianco che accoglie i visitatori, su una parete di fondo la foto della Signurina sembra proteggere, come un santino ingrandito, l’azione racchiusa nelle immagini di questa casa. Da questo stesso vano possiamo vedere simultaneamente le tre stanze che vi si affacciano orizzontalmente. La prima è quella ocra con i quadri (Al mondo), e il varco di ingresso è rettangolare, nella seconda l’ingresso è a cupola e contiene il video Ed ecco vigilarmi: una ripresa della casa che si muove a scatti leggeri, assecondando il fruscio del respiro, il suo accelerare fino a un frastuono di eros e pulsazioni emotive diverse. Evoca la presenza fantasmatica della Signurina, ma anche come scrive Francesco “l’incubo che viene da dentro, da questi paesaggi un po’ monotoni, piccole cittadine invase dalla noia o ai margini dalla noia. In uno scenario quasi tutto uguale, intristito dalla lentezza, la gente svolge una vita tanto scontata quanto ferma. L’orrore è sempre uguale”. La terza stanza, ha di nuovo un ingresso rettangolare della stessa altezza della prima, tre quadri registrano diversi punti di luce: in uno domina il giallo ( Nel paesaggio nervoso), in un altro il verde, infuocato da una vampa rossa che campeggia sull’angolo del secondo piano (Da qualche parte), infine il blu (Stai calma) chiude il percorso. Le pareti della stanza sono dipinte di rosso arancio, forte e incandescente.

Così se ci siede nel divano che è posto al centro della stanza di accoglienza si vedono fuoriuscire delle vampe di colore che passano dal giallo ocra acido della prima stanza, a quello spento, terroso, della seconda, alla vampa rossa della terza.

La funzione del colore sulle pareti è quella di allagare la prospettiva dei quadri in una sospensione di luce quasi tattile e contemporaneamente di chiudere e sigillare le singole immagini di questa casa, sempre uguale e sempre parzialmente diversa, in un luogo chiuso, bastante a se stesso che ci mette a contatto con l’immobilità impenetrabile di questa un’unica visione.

Siamo entrati in varie stanze, siamo saliti e scesi dalle scale, quasi mimando un viaggio dentro l’immagine simbolica del “Privato”, com’è appunto una casa, ma ogni volta ci siamo trovati di fronte a una facciata chiusa, a un segreto senza indizi. Una metafora che disegna l’ossessione claustrofobica del privato, nella quale riconosciamo la vicenda di una donna ritenuta strana, proprio perché mandava indizi di un privato anomalo, lei che era protetta dall’ambiente sociale, che parlava inglese e aveva fatto da interprete agli alleati durante lo sbarco, non aveva accettato le regole e così era rimasta sigillata in un’anomalia. Il destino ha voluto che ai bordi della sua casa ne nascesse un’altra che ripeteva in modo diverso il sigillo di un’impossibilità.

Il racconto visivo di Lauretta attraverso la pittura assume il timbro di un film che non si proietta su uno schermo, ma che materialmente costruisce gli spazi della rappresentazione. Nel cinema abbiamo spesso la sensazione di entrare in case, (pensiamo a Hitchcock), di attraversare strade, di salire scale (Losey), nell’installazione pittorica di Lauretta lo facciamo fisicamente, tant’è che le singole stanze con le quali ha costruito il suo spazio scenico, creano molteplici figure geometriche, man mano che le percorriamo. L’ambiente giallo al piano superiore, disegna ombre, prospettive come se fosse una camera di sospensione ipnotica; la discesa della scala diventa un acquerello astratto; la sequenza dei varchi di ingresso visti simultaneamente alludono a una disegno metafisico, e molte altre figure si creano nel continuo gioco di rimandi tra le pareti esterne e quelle interne, di volta in volta “dipinte” dalla rifrazione dei colori e dalle diverse tonalità di luce. Nasce un movimento simile a quello di una macchina da presa azionata dai singoli visitatori, che così possono crearsi una propria storia visiva.

Questa specie di film creato con un sistema di scatole fisse è la risposta positiva alla drammatica fissità del “Privato”. Anche ciò che sembra immutabile contiene una varietà di timbri e di percezioni che suggerisce un cambiamento in atto, quando lo si avverte, come un lampo, squarcia la notte e il cielo in cui si è rinchiusi. Lauretta lo ha fatto squarciando i suoi ricordi e il sistema narrativo della sua pittura, indicando una nuova forma di racconto visivo.

 

Francesca Pasini

 

Milano, aprile 2007