Francesco Lauretta

Le metafisiche del tempo

Testo in catalogo di Roberto Pinto

La prima volta che ho visto una mostra di Francesco Lauretta è stato allo spazio Care of (ancora nella sede di Cusano Milanino) dove l’artista aveva installato un unico e grande lavoro composto da quasi 10.000 soldatini, realizzati in cera e das, tutti caratterizzati da una evidente pancia gravida. Un lavoro in grado di far mettere in contatto gli estremi vita e morte, maschile e femminile, in un modo semplice e diretto, grazie alla sua interessante veste formale, vicina alle installazioni di Antony Gormley1 o ai lavori che qualche anno dopo avrebbero fatto i fratelli Chapman. Nella sua recente personale alla galleria Carbone di Torino, oltre a presentare alcuni quadri, Francesco Lauretta mostrava ben dieci video, avvicendati in una proiezione, che, in un certo senso, costituivano una mostra a sé, autonoma e complessa, dove si ragionava di arte e di sesso, di mafia e di religione. Questi sono solo due esempi di come Francesco Lauretta abbia dato prova di saper lavorare, con assoluta disinvoltura e capacità, con media diversi.

Sempre di più però — e questa mostra ne è la prova tangibile — tutto il suo lavoro ruota intorno alla pittura, che ne è diventata, allo stesso tempo, fulcro e motore. Ed è spontaneo chiedersi il motivo del suo ricorso a quella tecnica antica e difficile da praticare, per capire perché mai un artista come Francesco Lauretta si sporca le mani, fatica a trovare il giusto equilibrio di un’immagine, perde tempo a ricostruire con pennello e colori immagini che già esistono, che hanno già una consistenza reale nelle fotografie da cui parte per ottenere i suoi quadri. La risposta non è facile da trovare e non può essere una sola. Intanto si potrebbe affermare che questi quadri non sono esattamente uguali alle fotografie, da cui si distanziano per inquadrature e uso del colore. Poi si potrebbe aggiungere (e questa forse potrebbe essere una spiegazione di per sé già esaustiva) che Francesco Lauretta ricorre a tale tecnica per il piacere di dipingere, per la voglia di veder apparire l’immagine che ha in mente. Un’immagine che, ovviamente, cambia con il farsi dell’opera stessa fino a raggiungere quell’equilibrio che consente all’artista di dichiarare: “sì, quel quadro è proprio finito”. Però, come sempre, bisogna cercare di avvicinarsi alla realtà muovendosi da direzioni diverse, sperando che, nel frattempo, quel nucleo di verità profonda non se ne sia già andato via, lontano da dove stiamo cercando di intrappolarlo.

Proviamo a partire da alcuni dati: questi quadri hanno come comune base di partenza quelle fotografie che ognuno di noi tiene dentro casa. Dei frammenti di realtà, della nostra famiglia, del nostro passato; il modo più comune — e che forse rimarrà caratteristico del Ventesimo secolo — di dare una forma riconoscibile (e a volte standardizzata) ai ricordi, e una fisicità alla nostra identità o almeno a una parte di essa. Fotografie che mescolano una dose di malinconica tristezza al conforto, appunto, di riconoscersi, non soltanto attraverso immagini che ci ritraggono, ma mediante le persone, le cose, i riti, gli ambienti, i momenti che appartengono al nostro passato, ci sono familiari. Visioni di per sé ricche, ma che, nel processo della rielaborazione pittorica, vengono ingigantite — come accade ai ricordi di infanzia — e impreziosite — come solo il passare del tempo è capace di fare — da quel lento lavoro manuale, attraverso cui, quelle fotografie acquistano una capacità comunicativa molto più forte, un’emblematicità condivisibile anche da chi, diversamente, ne rimarrebbe escluso.

Per andare oltre, prendere delle immagini e rimanipolarle con un metodo lento ed empirico, può essere anche visto come il modo di agire adottato dall’artista per innescare un processo di raffinamento dello sguardo, di “pulizia” dell’immagine. Tutto il lavoro di trascrizione pittorica non è altro che una continua elaborazione: di aggiunta di particolari, in alcune parti del quadro, e di sottrazione di informazioni in altre. Enfatizzando e cancellando la pittura costringe a compiere un processo di analisi e di semplificazione della realtà. Ed è proprio per queste ragioni che, in un caso come quello di Francesco Lauretta, possiamo parlare di una tecnica che a sua volta diventa un ulteriore strumento di conoscenza. L’intenzione dell’artista non è mai, tuttavia, quella di recuperare il concetto di realismo, come lo si può desumere anche solo soffermandoci su una superficiale analisi dei colori usati nei suoi quadri: tinte esasperate, sature; figlie della cultura digitale almeno quanto della calda luce mediterranea; influenzate dalla pop art almeno quanto dall’iconografia popolare. Il suo lavoro si configura quindi come processo “non realistico” di descrizione della realtà vissuta.

C’è anche un altro aspetto della pittura di Francesco Lauretta su cui bisogna riflettere, probabilmente quello che Francesco avrebbe usato per primo: quello che lui stesso definisce la “pesantezza” della pittura. Certamente si tratta di una pesantezza che è frutto del faticoso processo di realizzazione, ma che potremmo anche definire come “formale” oltre che “fisica”. Non può essere, infatti, ignorato un fardello molto ingombrante: quell’inevitabile e ulteriore carico impostoci dalla tradizione e dall’inevitabile confronto con essa. La storia dell’arte, qui in Italia, ha infatti un peso specifico ancora più elevato che altrove. Nel Bel Paese è quasi impossibile dipingere con disinvoltura o superficialità (almeno per un artista coscienzioso), ignorando il lungo e ricchissimo percorso di questa disciplina. Una pesantezza che, per altri versi, può essere considerata il contraltare alla leggerezza di tutte le immagini di consumo che riempiono ogni spazio e ogni momento della nostra vita. La pesantezza (anche) della memoria che, come già scritto prima, è la nostra identità, che allo stesso tempo, tuttavia, ci priva della libertà di uscire da un solco già tracciato. Certamente non si tratta di un inconscio desiderio di restaurazione del passato, né di una nostalgica ricerca del tempo perduto, o di un’allusione a un’età dell’oro definitivamente esauritasi: si può essere assolutamente contemporanei confrontandosi con una lingua antica e scegliendo come argomento il nostro recente passato. Forse, per semplificare, si potrebbe dire che Francesco Lauretta parla di pesantezza perché — parafrasando l’inizio della prima delle Lezioni Americane di Italo Calvino2 — “sulla pesantezza penso d’aver più cose da dire”. E così come tutta l’opera di Calvino ha rappresentato un progressivo togliere il peso3 alle cose, il percorso di Lauretta può essere definito quale continuo riappesantire quel mondo delle immagini che sembra vivere in un universo parallelo, privo di contatti con la pesantezza della vita quotidiana.

Pesanti sono anche quelle sue radici storiche e geografiche, a volte ignorate, ma mai cancellate né rinnegate. Luoghi e memorie personali sempre attraversati dalla dovuta ironia e da uno spiccato senso critico. La Sicilia, amata (e odiata) come si ama (e si odia) il proprio padre e la propria madre. Ma anche una Sicilia cercata e mostrata come metafora più ampia di una condizione umana generale (almeno per i paesi più ricchi), di un luogo in cui si cerca di far fronte alla velocità dei cambiamenti tecnologici e culturali e, allo stesso tempo, affannosamente, ci si aggrappa a tradizioni e riti (o, mutatis mutandis, ce ne si inventa di nuove come quelle di radici celtiche o del dio Po della Lega Nord) che ci fanno sentire sicuri, membri di una comunità, avvolti dalla “nostra” tradizione, distanti dall’economia globale che ci sta travolgendo. Francesco Lauretta guarda la Sicilia ma forse vede noi, mentre guardiamo la nostra immagine riflessa allo specchio. Guarda la velocità del tempo presente e la confronta con quella del suo lavoro che scandisce il passare di ogni singolo istante attraverso un’appropriazione fisica, corporale della realtà.

C’è un ultimo elemento (che potrebbe essere anche la premessa a tutte queste riflessioni) che va preso in esame ed è l’evidente vocazione narrativa di tutte le opere di Lauretta, che siano video o installazioni, molto esplicita anche in questi suoi ultimi quadri. Narrare una storia è mettere in comune quel particolare vissuto (non importa se inventato o meno), è renderlo condivisibile dagli altri. Le storie di Lauretta provengono dalla sua vita vissuta ma, allo stesso tempo, rappresentano delle interruzioni della quotidianità, per la loro capacità di stupirci. Guardando i suoi quadri veniamo spiazzati da queste masse di persone e di colori colti in momenti magici, fuori dall’ordinario, quali sono le feste. Allo stesso modo veniamo sorpresi e affascinati dalla ricchezza formale e dai colori della decorazione della scala che fa da sfondo all’arringa di Don Peppino in Abracadabra.

Le metafisiche è il titolo della mostra, ma forse dobbiamo distaccarci dalle immagini di De Chirico e dal suo continuo tentativo di rendere fermo e senza vita il suo quadro, spostando la rappresentazione in una dimensione più alta rispetto alla realtà. La vita stessa contiene le metafisiche a cui allude Lauretta con questo titolo. Metafisico è imbattersi in una statua come quella di San Vito (dipinta in Lontano da ogni giorno), così elegante e ostentatamente femminea, all’interno della Chiesa di Santa Annunziata a Ispica; altrettanto metafisico è l’angelo bambina di La patetica che si staglia sul panorama di Ispica tra trascendenza e spettacolarità, come la mano di un adulto che le passa quell’apparecchiatura tecnologica e che sta lì a rendere terreno quel volo mistico. Con il movimento storico, forse Lauretta ha in comune un elemento ironico, ma che lui intride di vitalità e impasta con il tempo che scorre. C’è il mondo che non può essere più relegato fuori dalla cornice. Non è un caso dunque che l’ultimo dei quadri che l’artista ha realizzato per questa mostra, Dolce, sia la rappresentazione di un funerale, quello del nonno, ed omonimo, Francesco Lauretta. Prende la scena la morte che è il paradigma dell’interruzione di quell’eterno presente dei quadri metafisici, ma anche del ripetersi dei gesti quotidiani così al centro dell’attenzione artistica degli ultimi anni. È il tempo, con la sua pesantezza, che fa irruzione sulla scena, vero deus ex machina dell’intera mostra. È il tempo che spadroneggia su questi quadri così come nella nostra vita, anche quando è momentaneamente abbandonato, anche quando è metafisicamente sospeso.

 

1 Penso a Field, un lavoro presentato da Gormley nel 1991 alla Ujawoski Castle Gallery, Warsaw, Polonia

2 Italo Calvino, Lezioni americane, sei proposte per il prossimo millennio, Garzanti, 1988, p.5.

3 Idem, “(…) la mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso; ho cercato di togliere peso ora alle figure umane, ora ai corpi celesti, ora alle città; soprattutto ho cercato di togliere peso alla struttura del racconto e al linguaggio”.