Francesco Lauretta

Francesco Lauretta, Ex stasis

Questo è lo stato dell’arte oggi, per Francesco Lauretta: stiamo per chiudere, affrettatevi ad uscire! I visitatori lo trovano detto esplicitamente alla fine del percorso della mostra, scritto al neon: “Uscite, uscite, stiamo chiudendo!”.

Altri artisti della sua generazione sembrano condividere e lanciare un messaggio simile: la festa è finita, è come se fossimo arrivati in ritardo, quando la stanza è ormai in disordine e sono rimasti solo gli ultimi ospiti malinconici; qualcuno forse guarda la televisione, qualcuno ancora discute di qualcosa, parlando o troppo sommessamente o, al contrario, alzando la voce, probabilmente perché non ricorda più da dove era partito; un paio di persone scambiano sornione battute d’intesa sulla porta, rinnovando promesse che si sono scambiate durante la serata.

Anche in letteratura e in musica si respira spesso un’aria del genere. Francesco me ne segnala appena può, e io mi affretto a leggerla e a sentirla, sicuro della sua acutezza, perché sono un po’ il suo testo e la sua colonna sonora. È un punto anzi che credo vada sottolineato, non solo perché contestualizza la sua opera e la sua sensibilità, ma perché mi pare indispensabile per distinguere la sua pittura da altra che si continua a fare, più formalistica o euforica o incosciente. Qui si tratta di altro, innanzitutto di una tonalità completamente diversa, di un’intelligenza tesa e concentrata che, invece che accanirsi sulla novità o sull’icona, si guarda intorno, nella stanza della festa agli sgoccioli, e riflette con fare poetico su ciò che vede. Guarda non con distacco ma sì un poco da fuori, come uno appunto arrivato a cose ampiamente avanzate e che vive l’imbarazzo di inserirsi nei discorsi altrui. Questo gli permette di pensare e di dire altro, nel momento in cui si inserisce. È l’importanza di questo che non è solo un “tono”, un “atteggiamento”. Quest’arte, letteratura, musica, carica di senso tutto quanto ha a disposizione, che usa con grande senso di responsabilità, non con specificità né con presunzione di rispecchiamento, bensì con penetrazione e partecipazione, cercando aspetti inediti dei temi che affronta, facendo risuonare metafore diverse, cercando timbri nuovi, rispondenti alla visione delle cose.

Certo la visione non è per niente ottimistica, questo è evidente. Ma non è introvertita, anzi è un appello, non un retorica speranza, ma una ricerca vera e appassionata. Il tono di malinconia non deriva né dalla rinuncia né dalla costernazione critica, piuttosto dall’amarezza per lo spettacolo – in tutti i sensi! – che si staglia davanti agli occhi e per il timore della rassegnazione altrui. La situazione, vorrei dire, è un po’ quella che Walter Benjamin ha chiamato della “obsolescenza”: nel momento in cui qualcosa – qui un medium, come si usa dire oggi – ma non solo, la condizione generale stessa –, sembra o è alla fine del suo percorso storico, perché sostituito da un altro più avanzato, dicevamo, ha una sorta di colpo di coda e finisce con il prefigurare qualcosa che va addirittura al di là, oltre ciò che lo sostituisce. Benjamin ha esemplificato questa idea ricordando il diorama, sostituito dalla fotografia e che però prefigurava in realtà già il cinema. Lauretta sembra cercare nella pittura questa possibilità, la prefigurazione di qualcosa che vada al di là di ciò che la sta per molti aspetti sostituendo. Ma, dicevo, non solo per quel che riguarda il medium, per la pittura, ma anche per la sensibilità e per i contenuti.

Ciò che qui importa soprattutto è che questo modo di intendere guarda avanti invece che indietro, non è nostalgico ma proteso nella ricerca. D’altro canto questa pittura di Lauretta non si riallaccia a quella che fa i conti con la fotografia, ma è fotografica e iperrealistica nel senso piuttosto di Jean Baudrillard, cioè della sparizione non del mondo che ritrae ma di noi nel mondo, immagine squillante della realtà che fa a meno di noi. Ha questo senso il finire della festa, Baudrillard direbbe dell’“orgia”, di cui si diceva sopra. Ma, Baudrillard a parte, l’iperrealtà di Lauretta è altra cosa ancora, che tiene enigmaticamente insieme passato e futuro, veramente con un “suono” diverso e inconfondibile. Per spiegarlo in qualche modo mi viene in mente l’idea di Roland Barthes di “futuro anteriore”, di immagine di memoria in cui vediamo già ciò che avverrà in seguito, come nel volto del bambino l’adulto che sarà, ma in maniera più estraniante, cioè più nella direzione di quell’“impazzire per la pietà” e quell’“estasi fotografica” che Barthes descrive subito dopo. Ogni immagine dovrebbe catturarci al punto da turbarci, non come un ricordo di qualcosa che abbiamo vissuto ma piuttosto come un déjà-vu, ritorno di qualcosa che non abbiamo vissuto e che ci si presenta come presagio di qualcosa che verrà. La “follia”, l’“estasi” sono allora la manifestazione commossa di fronte a questa smagliatura nel tempo, a questo nodo di passato e futuro.

Io credo che questo effetto i dipinti di Lauretta lo ottengano attraverso il particolare contrasto che li caratterizza tra la lusinga iperreale della figurazione, del colore, dell’immagine ben decifrabile, e qualcosa che ogni volta è strano, fuori fase – potrei azzardare il gioco di parole: qualcosa che torna (nel senso che ho detto, quando non addirittura del rimosso) proprio perché non torna (nel conto della normalità) –, una distorsione della figura, un’acidità dei colori, un dettaglio, una sovradeterminazione, una metafora; ma anche, appunto, tra la seduzione della pittura e qualcosa che la disturba, la distrae, un neon, un oggetto, una particolare installazione, talvolta perfino un essere vivente...

Torniamo dunque alla nostra mostra: a ricevere i visitatori c’è dunque significativamente una gabbia, vuota. Doveva contenere un gallo da combattimento, di quelli sgargianti nei colori delle sue penne e aggressivi, cresciuti per la lotta: metafora efficace dell’artista, e forse anche della pittura stessa. Ma ora dov’è? Il doppio senso del titolo aiuta a comprendere: Ex stasis, assenza e estasi insieme, stasi e movimento insieme.

Intanto resta una gabbia, metafora non meno efficace, che, come sappiamo già per averlo anticipato, cortocircuiterà, illuminandosi così di luce diversa, con la scritta del neon finale: “Uscite, uscite...”. A chi si rivolge infatti quell’ingiunzione? Resta, dicevo, la gabbia come un oggetto, una scultura, molto disegnato, dalle forme geometriche e pulite che fanno un po’ il verso a uno stile che non appartiene a Lauretta, il minimalismo, che contrasta e “stona”, stride, con il resto della mostra. È un ulteriore modo per evidenziare il vuoto lasciato dal gallo. Ma ecco poi lì accanto, in pittura, qualcosa che lo può richiamare, ma ormai trasformato in pollo arrosto: destino crudele. Succulento pollo arrosto, con tanto di contorno di patate, ma i colori insospettiscono, il pollo ha riflessi inquietanti, le patate hanno toni verdi da putrefazione. Ah, la carne è debole e caduca! la morte sempre in agguato! L’estasi è solo dello spirito. Il titolo del quadro, Come una forma di pane, è al solito estremamente allusivo, volendo tenere insieme gli opposti: il rimando al pane introduce un che di festa, di semplicità e di veridicità, ma anche di rito, cui rimanda forse il doppio senso della parola “forma”.

Il quadro centrale, il quadro grande della mostra è appunto uno di quelli con una processione tipica delle feste religiose siciliane, come Lauretta ne ha già dipinte in altre occasioni. Questa volta però il momento fissato – fotograficamente, nel senso indicato sopra – è quello del cedimento, del crollo di alcuni portatori che rovinano sotto il peso del baldacchino che sta per cadergli addosso: una festa che finisce male, una caduta che è immagine dei nostri tempi. Come un vaso rotto, dice il titolo, e poiché la scena è inequivocabile, a me piace riportare allora la metafora al medium: è la pittura che è qui come un vaso rotto, non un medium rivendicato per la sua integrità, ma a sua volta in fase di caduta, di obsolescenza, dicevamo.

Ma anche la caduta più rovinosa, la rottura più incombente, non sono assolute. Per citare ancora Benjamin, e coniugarlo anche stavolta a Barthes, raccogliamo il loro monito: ogni immagine andrebbe considerata nel modo di un ricordo che si presenta improvvisamente nel momento del pericolo. O per dirla in altro modo, si ricordi che “apocalisse”, oltre a indicare la massima tragedia finale, significa anche rivelazione – apo-kalypsis –, svelamento.

E’ forse quello a cui allude il ritratto che costituisce l’altro quadro della stanza, una sorta di centro eccentrico dell’esposizione: grottesco ma lucente, dal titolo luminoso e illuminante: Lo splendore portato come un mantello. È un volto che evoca una storia, una vita, un’umanità che potremmo dire d’altri momenti, se non d’altri tempi. È una persona ora scomparsa, una persona cara a Lauretta, ma che resta anonima per noi, cioè propriamente il volto della storia che resta sconosciuta, anonima, dimenticata, la storia dei vinti, come si diceva una volta, dei senza storia. A restituirgli una individualità, una peculiarità, paradossalmente è la deformazione cui il volto viene sottoposto, la smorfia che assume e che lo rende diverso e riconoscibile.

Se egli è l’individuo, l’indivisibile, la visione di un cimitero di lapidi segnate con soli numeri chiude la mostra appena prima che la scritta al neon ci ingiunga di uscire al più presto. Questi sono, come dice il titolo, I precipitati, quelli caduti sotto il baldacchino, quelli rimasti senza nome. È un’immagine desolante ma avvincente al tempo stesso, fatta di pietre e di fiori, di anonimato e di poesia. È il cimitero di Ispica, il paese natale di Lauretta: nascita e morte dunque cooptate insieme nell’immagine. È tutto un omaggio accorato e amaro alla sua terra di origine questa mostra.

Dunque, infine, si chiude, ma che cosa veramente? Il cimitero? la storia? la mostra? la pittura? Decida ciascuno, ma in ogni caso ci si affretti, non si indugi. (Vedete, anche quest’ultima “opera”, apparentemente ingiuntiva e allarmista, contiene invece un invito, una chiamata e un incitamento: Forza, uscite, non lasciatevi chiudere dentro, non lasciatevi sopraffare).

 

Elio Grazioli