Francesco Lauretta

La pittura dopo tutto

27 luglio, 2010

La pittura nasce insieme a noi e la sua presenza pare normale nella nostra esistenza come normale mi pareva quella luce che baciava l’asfalto di via IV novembre dove giocavamo coi calzoni corti e disegnavo storie – per me stesso, per altri bambini e, a volte, per mio nonno e il pittore Borgia – come le avventure di Lassie, di Rin Tin Tin, La Freccia Nera, più avanti Sandokan e Tarzan e infine le avventure degli eroi della Marvel. Era naturale: la pittura era insieme a noi dappertutto. Poi, fortunatamente, si cresce e non si vede più niente. Quando si è giovani non si vede niente o così è per la maggior parte di noi, o meglio si vede altro e altrove cose ma soprattutto sé stessi, narcisi innamorati tanto da vedere nient’altro, e quella pare vita. D’altronde cos’è la gioventù se non questa spensieratezza, questo vivere non vedendo? Questo meraviglioso ebetismo?, e se desideri di fare l’artista, e ti guardi intorno e non trovi niente, nessuno strumento e ti chiedi come e con cosa incominciare, comprendi immediatamente che la pittura se è vero che è il linguaggio più facile e diretto per iniziare è anche già cosa vecchia, remota.

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1999, via Matteo Pascatore 4, Torino, ore 18 inaugurammo per la seconda volta, una mostra in casa. Differentemente dall’anno precedente, io e Y non intitolammo l’evento e non comunicammo alla stampa la notizia della vernice né, tantomeno, invitammo galleristi, critici, collezionisti e compagnabella. Come in “Disumanesimo” occupammo tutti gli spazi possibili compresi il bagno, la cucina, stanze da letto eccetera. Per l’occasione esposi un’opera intitolata “Autoritratto” e misi alla prova due pittori che, senza esclusione di colpi, si misurarono ritraendosi l’un l’altro in quella che fu una vera e propria maratona, una vera e propria sfida delle proprie capacità, un duello, per dirla cinematograficamente. Avevo allestito un vero e proprio studio di pittore con colori, tavolozze, cavalletti e altri strumenti facili da immaginare che generalmente arredano lo studio di un pittore. I due pittori sono SG. e SG., due fratelli, due prodigi visto che da giovanissimi riuscivano a copiare con una felicità disarmante le opere impossibili come quelle di un Raffaello, di un Rubens o Bacon e lo stesso Richter. Chiesi loro di mettersi uno di fronte all’altro, di realizzare il ritratto dell’altro fratello e una volta finito il lavoro di firmare la tela col proprio nome. Questo comportava il fatto che il ritratto di Sergio portasse la firma di Salvatore G. e quello di Salvatore la firma di Sergio G. e l’intera opera la mia firma. Titolo: “Autoritratto”. L’autoritratto del pittore non poteva essere diverso da quello che desideravo mostrare: un mettersi in gioco delle vanità, uno scontro vanitoso di identità sempre in conflitto, un continuo cadere, un isolamento “spostato” – disturbato -. Questo  “Autoritratto” costituito non solo da un raddoppiamento ma anche da quello che definirei una deflagrazione dell’identità mi permise non solo di provare la distanza o lontananza di me come soggetto mettendomi in compagnia dell’alterità – vedi Bubblegum – ma anche del ruolo del pittore, e io mi ero servito di due ‘grandi’ pittori come pochi ne esistono oggi al mondo, di due pittori falliti. SG e SG sono falliti nel momento in cui hanno rispettivamente scelto di fare un’altra professione rispetto a quella di pittore che da sempre sognavano, e sognano di fare. Il fatto divertente è che oggi, entrambi, quando vedono una mostra di pittura, si fanno delle grasse risate.

Infine, leggevo nella notte che Wyndham-Matson, sotto torchio, mostrò a Rita due accendini: ”Guardali. Sembrano uguali, no? Bè, ascoltami. In uno di essi c’è la storicità”.”Non la senti? La storicità?”. ”Che cos’è la storicità?” chiese lei. ”E’ quando un oggetto ha la storia dentro di sé. Stammi a sentire. Uno di questi due Zippo era nella tasca di Franklin D. Roosevelt quando venne assassinato. E l’altro no. Uno ha storicità, anzi ne ha un sacco; più di quanta un oggetto ne abbia mai avuta. L’altro non ha niente. Non c’è nessuna ‘mistica presenza plasmatica’, nessuna ‘aura’ che lo circonda”. ”Dai” disse la ragazza, intimidita. ”E’ proprio vero? Che aveva uno di questi con sé, quel giorno?””Certo. E io so qual è: Capisci il mio punto di vista? E’ tutto un grosso imbroglio; Voglio dire, una pistola viene impiegata in una famosa battaglia, come quella di M-A, ma se non fosse stata usata sarebbe esattamente la stessa. A meno che tu non lo sappia. E’ tutto qui”(1), e continua e anch’io continuo.

(1) La svastica sotto il sole di Phil Dick.

Francesco Lauretta