Francesco Lauretta

Pasquale

«E vedranno il Figlio del’uomo venire sulle nubi del cielo con gran potenza e gloria. Egli manderà i suoi Angeli che, con tromba dallo squillo potente, raduneranno i suoi eletti dai quattro venti, da un’estremità all’altra dei cieli. »

“Matteo, 29-31”

 

Dentro una spessa nuvola di un fumo artificiale, Cristo fa il suo ingresso divino tra la folla, gente ammassata nel meticciato dei colori dei suoi abiti, con le fisionomie sbiancate dai vapori. Lui occupa la prospettiva centrale, non del tutto in asse rispetto alla preziosa luminaria che inquadra la scena come un arco del Trionfo, ma ancora pochi passi in avanti e la mano sollevata verso l’alto, ad indicare una superiore paternità, taglierà esattamente in due lo spazio e sovrasterà la piramide di teste che si stendono ai suoi piedi come un tappeto in movimento. E quella bandiera sfrangiata, appena inclinata sulla destra, sventolando elegantemente mostrerà dal lato opposto il suo rosso acceso, vitale, sfacciato: sangue e passione, amore e passione.

“Pasquale” è una scena di resurrezione, immagine che alberga nella memoria privata dell’artista e nel bagaglio religioso-culturale collettivo, spogliata, nella versione pittorica che ne restituisce l’artista, dell’aspetto più popolare e kitsch, per comunicare, ben oltre l’evidente apparenza della visione, il senso di una riflessione intorno al valore etico ed estetico del termine resurrezione, non senza un’acuminata sollecitazione ironica sul rapporto tra devozione e spettacolarità.

Quest’ultima caratteristica si delinea come una costante nelle sue opere: non è senza “colpa” che Lauretta attinge a piene mani a quel sovrabbondante e rigoglioso paniere di meraviglie che è l’iconografia delle feste religiose, con i suoi colori, con gli oggetti “appupazzati”, come dire, un “merchandising” di sana cultura popolare (i dolcetti natalizi e pasquali, le decorazioni dei costumi, le preziose luminarie) per mettere in scena il carattere più coraggiosamente spettacolare della fede, anche quello più sfacciato e sfrenato, che si esprime con la vanità di una cultura ancora profondamente barocca. Certo manca a questa manifestazione di fede, quella riservatezza e gentilezza che la farebbe sembrare più vera. Ma da tempo ormai lontano, la religiosità ha scelto la via dell’ebbrezza figurale, dell’eccesso decorativo, con il fine – non ultimo – di una presa diretta sulla coscienza dei popoli. Nelle tele di carattere religioso di Francesco Lauretta, tutto ciò appare svelato con l’intelligenza e la sagacia di un pittore intellettuale che inciampa nei contrasti, li rielabora, rendendoli mercanzia della sua creatività.

“Pasquale” – nome proprio di persona – è un dipinto che, nella levità e trasparenza dei suoi toni e delle tinte, esalta la trascendenza. Ancora una processione, con un primo piano descritto con quel carattere di iperrealismo, di cui Lauretta è maestro, ma tutto il resto dell’immagine è inghiottita da una densa stratificazione di fumi, che servono a vanificare l’incombenza del rito per esaltare la forza dell’idea.

In questo senso il Cristo risorto riporta all’attenzione il tema della rinascita dell’arte, e forse più opportunamente della pittura, linguaggio che l’artista di Ispica ha scelto di “adottare”, nonostante egli si definisca un artista concettuale, autore di installazioni, performance e video e convinto assertore di un’estetica della contaminazione nell’arte, tra linguaggi, materiali, culture, tra ideali. Per Lauretta la pittura è morta, o quantomeno è sparita, e una possibilità di resurrezione può esistere nell’ordine in cui essa riesca ancora a mostrare quanto possa essere seduttiva, evocativa e ingannevole, rifletta ancora sulle vicende del mondo, sul mito, sulla storia, sulla religione, sui sentimenti, veri o falsi, individuali o collettivi: la pittura si risolleva dalle sue macerie se ritorna a promettere la rinascita, anche di valori etici e morali. “Decanto l’inautentico perché possa risolvermi nella responsabilità verso un linguaggio che considero sfinito, responsabile affinché esso possa continuare a morire continuamente, per sempre finire. Per questo della pittura canto il collasso. Esaspero i colori come chi è esasperato dal dolore di un lutto e, nell’evidenza, nella figurazione sfacciata, al limite dell’osceno, consumo il mio paradosso: in fondo non sono un pittore ma desidero diventarlo, per finire”.

 

Emilia Valenza

Agosto 2009-08-11